In un giorno imprecisato del luglio 1791 si presentò a Mozart un signore magro, vestito a lutto, che gli recapitò una lettera: conteneva la richiesta di una Messa da Requiem da parte di un illustre sconosciuto che intendeva conservare l’incognito (un nobile prematuramente vedovo, si scoprirà, che intendeva eseguirla nella ricorrenza della scomparsa della consorte).
Mozart ne rimase profondamente turbato, parendogli di riconoscere in quell’uomo, che ritornò poi più volte a sollecitarlo, un messaggero di morte. Con ansia febbrile si mise al lavoro, ma fu costretto a interromperlo perché impegnato nella composizione della Clemenza di Tito e del Flauto magico. La morte, sopraggiunta il 5 dicembre 1791, lo colse prima di riuscire a terminarlo: il completamento dei luoghi mancanti nel Requiem, così come la strumentazione di alcuni brani, furono affidati al fedele discepolo Franz Xaver Süssmayr.
Quale immagine della morte ci comunica il testamento spirituale di Mozart? Quella rassicurante e consolatrice, che quattro anni prima in una lettera al padre avverte come «vera e ottima amica dell’uomo», oppure quella tragica e opprimente, vissuta nei mesi che precedono la sua scomparsa? Nella lettura del direttore greco-russo Teodor Currentzis, carismatico outsider della classica al suo ritorno al Lingotto dopo sette anni, e di MusicAeterna, la formidabile compagine orchestrale e corale da lui fondata nel 2004, l’ultimo capolavoro del genio mozartiano (introdotto in serata dal suo Concerto per fortepiano e orchestra in do minore KV 491) si rivela un concentrato di energia e concretezza esecutiva che fonde in un commosso abbraccio il terreno e l’ultraterreno.